Sulla rappresentanza degli interessi particolari

Da tempo si discute nel PD sulla rappresentanza degli interessi particolari. Cacciari come Tramonti paventano e auspicano l ipotesi di un partito appenninico, e da fronti differenti accreditano questo alla incapacità di rappresentare interessi locali e particolari.

Vero è che in queste particolarità troviamo interessi spesso contrastanti: agricoltori alle prese con le quote latte, imprenditori del manifatturiero e del tessile, scuole parificate, tassisti, ordini professionali, partite iva.

A torto o a ragione, la sinistra per queste categorie ha sempre rappresentato uno spauracchio o – nella migliore delle ipotesi – una sciagura naturale come un alluvione o un temporale.

Le cause sono molteplici, ma credo che semplificando basti analizzarne due.

  1. L’eredità storica della lotta operaia: che vede nella borghesia ieri e nel lavoro autonomo oggi un nemico di classe sin dalla rivoluzione francese; questa analisi è legata quindi al plus valore, alla proprietà dei mezzi di produzione e della gestione del capitale.
  2. La composizione del tessuto sociale del secondo millennio dopo la globalizzazione.

La prima causa, ossia l’equazione imprenditore uguale sfruttatore, dovrebbe trovare soluzione nella legislazione fiscale. La progressivita’ delle aliquote e il diritto del lavoro dovrebbero estinguere quest “debito” originario.

Una politica di spesa sprecona e i disservizi delle istituzioni invece fanno si che gli imprenditori si sentano vessati mentre spesso i dipendenti non percepiscono un salario necessario a una vita dignitosa. In Italia – con un’economia prettamente statale e parastatale – si aggiungono i ritardi dei pagamenti delle amministrazioni verso le aziende fornitricipercepiti a torto dagli imprenditori come un esproprio proletario operato dalla sinistra anziché come una negligenza di uno stato inefficiente.

A fronte di questa vessazione fattuale, la politica ha però tollerato l’evasione fiscale come anestetico : il risultato è una diffusa illegalità e una sostanziale diseguaglianza negli attori del mercato. Lavoratori e imprese di Serie A e di Serie B. Tutelati tout-court e schiavi del nuovo millennio.

Affrontare seriamente questo tema vuol dire creare uno stato giusto. Verso i tutti i lavoratori e tutte le imprese, alle quali si richiede il rispetto delle norme e che una volta estinto il “debito sociale” – quale che sia l’entità decisa dallo stato – non devono essere vessate ulteriormente.

La seconda causa è quella più interessante, perché legata alla lacerazione della societa’ e del sistema produttivo che dobbiamo ricomporre. Lo sviluppo che ha migliorato la qualità della vita e limato le differenze sociali fino agli anni ’90 – anni d’oro per il  Socialismo Europeo –  si è allargato al resto del globo, lasciando lentamente la Vecchia Europa.  Da lì sono partiti gli scricchioli che hanno portato con le delocalizzazioni e la crescita delle importazioni low-cost dall’oriente i primi conflitti locali. Da lì si sono riaccesi i conflitti tra gli interessi particolari. Interessi particolari in conflitto significa che piccoli pezzi di paese remano in direzioni diverse. E in questo caso serve capire perché.

La ricomposizione passa per un’ idea di crescita e di sviluppo sostenibile e competitivo nel mercato globale:  il paese deve trovare il modo di agire insieme – come una nuova tribù durante una battuta di caccia. Tocca studiare dove quindi nascono e quali sono le ragioni degli interessi particolari e dei loro conflitti, capire quali sono legittime e quali invece mera ricerca di privilegi.

Sugli ordini professionali il partito ha da tempo preso posizione guardando al mondo anglo sassone e decidendo di chiudere col corporativismo. Sulle quote latte il discorso più complesso e parte dall’ evasione delle quote e dal rapporto costo benefici, passando dal la competizione tra allevatori che hanno rispettato le quote è quelli che invece non lo hanno fatto. Ma ben poco è stato fatto per governare o spiegare il meccanismo delle quote in un sistema agricolo che probabilmente non era pronto a competere in un sistema europeo ieri e globale oggi.

Sul manifatturiero c’e’ da capire le effettive necessità del settore e delle imprese, e cosa può essere fatto di utile nell’ottica di uno sviluppo sostenibile e che incentivi l’export e l’ innovazione.

Anche qui chi ha corteggiato queste categorie con soluzioni illusorie o temporanei sollievi dalla competizione globale è stato un po’ come un pusher che da’ al malato dosi sempre più forti di morfina senza pensare al momento del risveglio.

Compito di un partito non è di essere il citofono delle categorie, ma di aiutarle ad elaborare soluzioni efficienti che funzionino nel sistema globale. Dialogare e spiegare , accogliendo critiche e suggerimenti, ed emendando anche le proprie posizioni.

Le quali però non possono che rientrare in un quadro organico, che è la strada da  percorrere per uscire dalla crisi e dare ai nostri figli un paese migliore.

April 12 2011 | Eventi and Idee and Sviluppo | Commenta per primo! »

Tremonti: il bluff antiliberista

Dopo aver letto il delirante articolo di Tremonti sul mercatismo mi permetto alcune considerazioni:

  • la critica che fa al “mercatismo” è effettivamente delirante;
  • imho nasconde un “liberismo paraculo”, simile al “socialismo delle nazioni” di moda negli anni 30.

L’analisi di Mr.T ha i suoi punti chiave facili facili:

  • il pensiero unico liberista è un residuo del materialismo storico;
  • l’omologazione si combatte rispolverando nazionalismi e le regionalismi;
  • la globalizzazione è pericolosa per il dumping sociale della Cina.

Più che antiliberista, Tremonti è un “corporativista europeo” che appoggia politiche liberiste come la mercificazione dell’acqua e dei servizi pubblici di base.

L’attacco all’articolo 41 della Costituzione mostra che la “critica al mercatismo” è un bluff: perché sono queste le parole ci differenziano dalla Cina

L'iniziativa economica privata è libera.
Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale
o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.

La legge determina i programmi e i controlli opportuni
perché l'attività economica pubblica e privata
possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali.

June 10 2010 | Politica | Commenta per primo! »

YASHO!

Non è un’esclamazione ma uno dei market di Beijing. Sembra i MAS di piazza Vittorio – con sette piani però – dove vendono tutto: dall’elettronica ai vestiti, dall’iPhone alle Timberland…ovviamente made in Asia.

Come quasi ovunque in Asia, non esistono i cartellini coi prezzi: è la commessa a fare il prezzo dopo avervi dato una rapida occhiata. Il valore della merce cambia con gli avventori: americani, giapponesi, indiani, africani, arabi, europei, cinesi…
Parlando cinese si ottengono prezzi migliori. Comunque sia è necessario contrattare: in inglese, in cinese o digitando numeri su una grossa calcolatrice.

All’inizio ero fiero dei prezzi strappati dopo ore di contrattazione: poi ho scoperto non solo che si poteva fare molto meglio, ma che molta dell’elettronica acquistata – ovviamente a prezzi ridicoli – non funzionava. Penne USB tarocche ma perfettamente confezionate, pile scariche, ma anche finto GoreTex e MadeInItaly(?) a gogo.

Dopo un po’ d’esperienza si riescono a fare ottimi affari, soprattutto sull’abbigliamento, e a bilanciare rischio e convenienza.

Yasho è un posto per occidentali: te ne accorgi dall’inglese, parlato a smozzichi e bocconi da tutti i commessi.
In realtà infatti nessuno in Cina parla inglese (e non tutti scrivono in cinese) se non chi ha contatti con gli occidentali.
English spoken, ma anche Chenglish: e si aprono al cinese le porte del lavoro. Le tonnellate di merce prodotta “a prezzi popolari” vengono poi vendute dagli “english spoken” a prezzi quasi occidentali.
Cresce così la forbice sociale e la distanza tra città e campagna.

February 22 2008 | Sviluppo | 3 Commenti »

Beijing – la capitale del nord.

Inizia qui un diario postumo del viaggio in Cina. Nella speranza che possa interessare/incuriosire su questa realtà vista spesso con gli occhiali sbagliati.

Bei jing / Pechino. La capitale del Nord.

Significa proprio questo, Pechino. Noi la chiamiamo così a causa della vecchia traslitterazione: Pe’king.

Arriviamo nella vetrina dell’impero di mattina e troviamo Clem che è venuto a prenderci in aeroporto.  A Pechino atterra il mondo, la chilometrica fila alla dogana scorre veloce, e con un bottone si valuta l’operato delle guardie – forse l’unica forma di voto che c’è in Cina.

Appaiono cartelli alla 1984 dove si spiega che “stiamo lavorando per voi”.

Finita la burocrazia inizia il mercato: la prima cosa che fa il turista è prendere una SIM cinese per chiamare a 3¢/min sulla rete nazionale (ma si paga un pochino pure per ricevere): è anche così che la China Mobile tra le prime aziende mobili del mondo.

Il sorridente Clem ci porta a casa: tra l’aeroporto e la città c’è un fiume di macchine  e grattacieli sempre in costruzione. I palazzi spuntano come i fiori di Fantasia.

Il pranzo italiano si tiene nello stupendo complesso residenziale con golf annesso dove abitano i nostri amici: molti italiani qui abitano in questi complessi dal look californiano…

January 25 2008 | Politica and Sviluppo | 1 Commento »